Ivan Grieco, commentatore professionista di esport, racconta ai microfoni di Sport Fair della sua passione e del suo lavoro
Ivan Grieco, 25 anni, Roma: una grande passione per i videogiochi e tanta voglia di inseguire i suoi sogni! Si parla tanto di videogiocatori pro ma che dire dei caster? Grieco, aka Rampage in the Box, commentatore professionista di esport, si racconta ai microfoni di Sport Fair.
Parliamo un po’ di te. Prima di diventare commentatore di esport, eri un videogamer pro di Call of Duty. Racconta un po’ di questa tua passione per i videogiochi.
Ho sempre giocato ai videogame, prima offline poi, con la XboX 360, ho scoperto il mondo dell’online intorno ai 15/16 anni e da lì ho iniziato a giocare conoscendo altre persone. Questo mondo era ancora sconosciuto all’epoca, parliamo del 2007/2008. In quegli anni era anche uscito il primo vero Call of Duty rivoluzionario che è Call of Duty: Modern Warfare, il quarto [della serie, ndr]. Da lì ho iniziato a giocare online i primi tornei; c’erano i primi clan, i primi gruppi organizzati per fare questi tornei. A quei tempi si giocava sui forum online, non c’erano veri e propri eventi dal vivo come adesso, con montepremi, dirette, streaming e quant’altro.
Come sei passato dall’essere un videogamer pro a fare il commentatore professionista di esport?
Ho sempre avuto, fin da piccolo, la passione di commentare le partite di calcio. Faccio un esempio: venivano i miei amici a casa e mi chiedevano di abbassare il volume della telecronaca di FIFA e di farla io. Invece di giocare, commentavo le partite. C’è sempre stata questa passione fin da piccolo e di conseguenza, a 18 anni, dopo la scuola, non volendo fare l’università, mia madre mi disse: “se non vuoi continuare gli studi, devi iniziare a lavorare”, giustamente, in quanto ero più che intenzionato ad iniziare un percorso lavorativo in alternativa all’università. Ho così iniziato a lavorare in un ristorante di amici qui a Roma e lì ho dovuto scegliere il percorso da fare, dovendo smettere di giocare da videogiocatore, di fare il player, che richiedeva diverse ore di allenamento per farlo a dei livelli decenti. Sono una persona abbastanza competitiva, non mi va di giocare e fare schifo [ride, ndr]. O gioco e sono al vertice oppure preferisco non giocare. Non volendo però abbandonare questo mondo e non essendoci ancora una vera e propria figura di commentatore, di caster, come viene chiamato nel nostro mondo, ho detto: “quasi quasi ci provo”. Ho iniziato a farlo per passione, nessuno mi pagava per farlo. Facevamo questi tornei online e io commentavo in streaming oppure ai primi eventi dal vivo. Magari mi pagavano il viaggio o l’albergo per andare dal vivo a commentarli. Finchè poi, nel 2014, sono stato chiamato da un’azienda a commentare un evento, il campionato Personal Gamer, che all’epoca era il più importante. È stato il primo evento in cui sono stato pagato per commentare: diciamo che la mia carriera è iniziata lì, nel giugno 2014. Poi nel 2015 sono stato assunto da un’azienda che si chiama Progaming Italia, che ha sede a Bolzano e che organizza questi eventi, questi tornei. L’azienda che ha organizzato l’evento di esport al Lucca Comics di quest’anno [Italian Esports Open 2017, ndr] è quella dove io ho lavorato per quasi due anni. Da Roma mi sono così trasferito a Bolzano e quindi per qualche anno ho avuto un altro ruolo oltre a quello del commentatore: il community manager, quello che parlava con i player, organizzava i tornei e gestiva le piattaforme online. Parallelamente, ho continuato a portare avanti la mia passione di commentatore. Utilizzo molto i social per portare avanti la mia attività, per esempio, ho un canale su Youtube. Ho sempre portato avanti più cose per far conoscere la mia figura ma in generale il settore perché alla fine è quello il mio interesse. Se cresce il settore, crescono tutti e cresco anche io: ho visto questa cosa come un modo per far crescere tutti. Quello che rende qualcosa importante e di successo è che ci siano persone a seguirlo. Il pubblico è la cosa più importante in questo settore, come nello sport. Dopo Bolzano, sono tornato a Roma, quasi un anno fa ormai. Me ne sono andato di mia spontanea volontà da quest’azienda per cui ho lavorato perché volevo dedicarmi al 100% all’attività di commentatore. Ho aperto una partita IVA e adesso sono un libero professionista. Ora posso dire che è il mio lavoro. Prima non c’erano abbastanza eventi per poter dire che era il mio lavoro. Però nell’ultimo periodo c’è stata parecchia attività, siamo in crescita.
Tu hai organizzato la Call of Duty Charity Cup 2017 [tenutasi il 30 novembre 2017, ndr] per l’Istituto Gaslini. Come è nata l’idea?
Mi è venuta in mente, credo, dopo le dichiarazioni di Malagò a “Che tempo che fa”. Più che Malagò, lì mi aveva dato un po’ fastidio Fazio che quasi sbeffeggiava il mondo dei videogiochi. Ha nominato “Super Mario” che è sì un videogioco ma non a livello competitivo. Non sapendo di cosa stava parlando, l’ha buttata sul ridere. Da lì ho detto: “cavolo, ma il videogioco può fare anche cose positive! Organizziamo questa Cup di beneficienza.” Tra l’altro, un amico della community, che collabora con il Genoa, mi ha informato che il Genoa Calcio stava portando avanti una iniziativa attraverso un sito online dove facevano donazioni attraverso magliette e il ricavato andava all’Istituo Gaslini. “Facciamo anche noi una giornata in streaming, un piccolo torneo, raccogliamo dei fondi, donazioni. Chiunque potrà donare quanto vorrà, nessuno sarà obbligato a farlo.” Abbiamo raccolto 1600 euro.
In America e in Corea del Sud gli esport vengono presi molto seriamente. Pensi che la stessa cosa potrebbe avvenire in Italia?
In Corea del Sud ormai da anni chi videogioca professionalmente è quasi una divinità, uno sportivo a tutti gli effetti e non viene visto di malocchio. Qui in Italia i media tradizionali come giornali e televisione, vedono ancora il videogioco come un “demonio”. Il videogame viene considerato un passatempo, non si pensa che possa diventare un lavoro o che possa essere giocato a livello competitivo. Secondo me è tutto un fattore culturale. Faccio un esempio: io ho 25 anni, mia madre e mio padre sono cresciuti con una cultura per la quale i videogiochi non sono un lavoro ma solo un passatempo. Però con me stanno iniziando a capirlo, vedono che loro figlio lavora in questo campo. Mio figlio, che si spera nascerà fra qualche anno, erediterà tutta la mia cultura, tutta la mia storia. Sarà diverso, sarà molto più avanti rispetto ai miei genitori. È semplicemente una questione di tempo. Ci vuole del tempo ma il cambiamento ci sarà, come in tutte le cose. Però noi arriviamo sempre dopo [ride, ndr].
Si è parlato molto di esport e Olimpiadi. È un argomento che ha creato molte discussioni. Sono anche state annunciate le eOlympics 2024. Ne hanno parlato anche sportivi come Pellegrini. Qual è la tua opinione in merito?
Non voglio esprimermi su quello che pensano gli altri, semplicemente dico che l’esport, ora come ora, con la crescita esponenziale che ha, non ha neanche bisogno delle Olimpiadi. Credo che siano più le Olimpiadi ad avere bisogno degli esport, per un fattore numerico, per la gente che smuove. Se l’esport sia considerato uno sport o meno a livello burocratico, a me non interessa. L’ecosistema dell’esport si può reggere in piedi anche senza un riconoscimento ufficiale da parte del CIO o del Coni. Si può considerare un sport? Io dico di sì: anche gli scacchi o comunque sport di minore attività fisica sono considerati sport o lo sono stati fino a poco tempo fa. L’esport richiede tantissima applicazione a livello mentale, molto gioco di squadra e concentrazione. Ci sono anche i mental coach nel mondo esport che indirizzano le squadre verso le cose giuste da fare e i giocatori pro all’estero frequentano la palestra abitualmente perché tra un allenamento e l’altro è importante staccare e fare un po’ di attività fisica. Non vedo nulla di diverso da uno sportivo tradizionale, semplicemente cambia la piattaforma e quello, forse, non è ancora accettato.
Secondo te, quali sono i videogiochi più interessanti da seguire e commentare?
Dico quelli che commento io perché sarebbe impossibile specializzarsi in tutti. Commento Call of Duty, il primo gioco a cui ho giocato da piccolo e poi il calcio, la mia passione fin da sempre. Ho fatto anche un paio di corsi di telecronaca sportiva. Ho anche una collaborazione con la Sampdoria che mi ha chiamato per registrare la mia voce all’interno della loro campagna abbonamenti. È una cosa di cui vado fiero.
Ti concentrerai sempre su quei giochi o magari commenterai anche videogame come Overwatch e League of Legends?
Molti mi hanno chiesto più volte: “Perché non impari a commentare League of Legends?”, che in Italia e nel mondo è il gioco più seguito. Sinceramente, non mi ci sono mai messo perché più di due giochi, tre al massimo, sono impossibili da seguire: un po’ come se il telecronista di calcio si mettesse a commentare una partita di basket o tennis. Diventa poco credibile, non riesce a specializzarsi, a seguire la scena, perché ci sono tutti i tornei da seguire e le storie tra i giocatori, le rivalità… purtroppo una persona sola non ce la farebbe. Poi, sinceramente, a livello di gioco non mi è mai piaciuto. A Overwatch invece ci ho giocato anche! Però anche lì la richiesta di lavoro è bassa e ci sono i commentatori di Overwatch anche in Italia. Non conviene in questo momento mettersi a fare concorrenza perché non c’è abbastanza richiesta per farla.
Quanti caster ci sono in Italia?
A farlo come unico lavoro, forse solo io! Ci sono persone che stanno iniziando nell’ultimo periodo a farlo a livello professionale. Più o meno ci sono tra i 20 e i 23 caster in Italia, tra tutti i giochi.
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